Tu sei qui: CronacaAntonio Scurati su CorSera: «Incuria e illegalità, così la mia Costiera frana sotto i piedi»
Inserito da (redazionelda), sabato 28 agosto 2021 10:06:10
Proponiamo ai nostri lettori la riflessione dello scrittore Antonio Scurati, cittadino onorario di Ravello, pubblicata sul Corriere della Sera di oggi, sabato 28 agosto, dopo la bomba d’acqua che giovedì scorso ha provocato crolli di macere a secco a Ravello. Un articolo in cui il Premio Strega 2019 regala un'analisi lucida e realistica della condizione della Costa d'Amalfi - che ben conosce - in relazione al fenomeno del rischio idrogeologico e dell'incuria del territorio che segue altri suoi articoli sulla tematica, l’ultimo il 7 febbraio scorso dopo la frana di Amalfi. «Incontriamo il doloroso paradosso di una terra meravigliosa nella quale il cemento vale 10 mila euro al metro quadrato e un ettaro di limoneto non vale più niente. L’attuale deterioramento è figlio dell’uomo» scrive Scurati.
Vi è mai capitato che la terra vi sia franata sotto i piedi? A me è toccato l’altroieri. Una frana ha squarciato un piccolo lembo di mondo giusto sotto la mia casa a Torello, frazione di Ravello, in uno degli angoli più belli dell’intero Mediterraneo. È una strana sensazione. La spaventosa bellezza dello sfregio catastrofico all’incantevole paesaggio ha la capacità di rivelarlo nuovamente agli occhi che lo osservano attoniti, al tempo stesso sollevati per essere scampati al disastro e angosciati per le sue conseguenze. Te ne stai lì inebetito, come se vedessi per la prima volta quello scenario noto fin dall’infanzia. Alzi lo sguardo sul piccolo, pittoresco borgo antico, sui terrazzamenti strappati dal sapiente lavoro umano al fianco scosceso della montagna, sul meraviglioso mare del mito, e, ammaliato, ti chiedi: chi ha costruito tutto questo? Poi fissi lo sguardo sulla voragine di fango, detriti e radici snudate, punti gli occhi sulla ferita e, sgomento, ti chiedi: chi ha distrutto tutto questo?
Entrambi gli interrogativi sono assolutamente pertinenti. La bellezza della Costiera Amalfitana, in ciò simile all’Italia tutta, non appartiene alla natura ma alla cultura. È figlia dell’incontro tra una natura superba e la cultura umana che nei secoli l’ha addomesticata, lavorata, resa abitale per la nostra specie. Cultura rurale, cultura architettonica, cultura marinara, cultura artigiana di mani laboriose e sapienti, di vite dure, anonime, ispirate e feconde. Anche l’attuale deterioramento di tanta bellezza è figlio dell’uomo, del tramonto storico di quelle culture, del dramma di generazioni che cambiano mani, aspirazioni, di tradizioni morenti.
Quella che ha squarciato la terra sotto i miei piedi è stata una piccola frana, non ha causato nessuna vittima (per fortuna e per caso), la strada rotabile sottostante è stata sgombrata in poche ore. Eppure, in Costiera Amalfitana, come nel resto d’Italia, calamità non-naturali di questo tipo si contano a centinaia negli ultimi anni, a migliaia. Se vogliamo essere degni delle generazioni che hanno costruito questa bellezza ma, soprattutto, delle generazioni a venire alle quali dovremmo lasciarla in eredità, dobbiamo guardare nel piccolo abisso di questa orrida terra smossa e chiederci che cosa possiamo fare per essa, che cosa non abbiamo fatto e non stiamo facendo. Qui come altrove, il disastro si produce all’incrocio tra cause globali e locali, epocali e accidentali. In cima alla scala delle criticità vi sono i fenomeni meteorologici parossistici dovuti al cambiamento climatico (una pioggia torrentizia giovedì ha battuto la costa per tre ore consecutive).
Non appena, però, scendiamo di qualche gradino su quella scala, incontriamo la nostra responsabilità diretta, il nostro raggio d’azione immediato, incontriamo noi stessi. Incontriamo innanzitutto l’incuria di una rete fognaria notoriamente insufficiente, a tratti addirittura priva di tubature, nella quale confluiscono acque scure e acque chiare, nella quale sono stati convogliati troppi scarichi di troppi hotel a cinque stelle. Poi incontriamo l’abbandono. Quest’anno i magnifici limoni della costa d’Amalfi (lo «sfusato» amalfitano) sono stati pagati ai coltivatori 60 centesimi al chilo (nel supermercato sotto casa mia a Milano si vendono a 4,50 euro). Cosa c’entra? C’entra eccome perché questo significa la fine della lemonicultura come attività redditizia. Significa il dilagante abbandono della terra agricola, il degrado degli orti-giardino a roveti infestati dai topi, il progressivo crollo dei gloriosi muretti a secco che per secoli hanno consolidato il terreno e garantito l’ottimale deflusso delle acque (il fondo agricolo dove si è prodotta la frana, già di proprietà di un locale monastero, è stato totalmente abbandonato per più di mezzo secolo). Infine incontriamo l’illegalità, l’illecito sistematico, la complicità attiva e passiva di chi dovrebbe combatterlo. Incontriamo il cemento che divora la terra agricola, l’abusivismo edilizio endemico che grida vendetta sotto gli occhi di tutti, quasi sempre impunito (solo di recente i carabinieri di Amalfi e la procura di Salerno — sia resa lode a loro — hanno dato segno di volerlo combattere, affiancando finalmente la tenace ma spesso impotente attività di sorveglianza della sovrintendenza). Incontriamo il doloroso paradosso di una terra meravigliosa nella quale il cemento vale 10 mila euro al metro quadrato e un ettaro di limoneto non vale più niente.
Voglio credere (sperare?) che oramai un concetto fondamentale sia chiaro: la tutela del paesaggio non è solo nell’interesse di pochi idealisti nostalgici ed estetizzanti ma nell’interesse vitale di tutti. L’economia turistica di questi luoghi (non solo quella agricola, oramai morente), la salute, la sopravvivenza, il benessere dei loro abitanti (residenti o avventizi) dipendono da esso. Il passato non ritorna, la civiltà contadina non ritorna, le schiene spezzate che hanno trasportato a spalle per generazione ceste colme di limoni su queste scalinate ripide e assolate non possono e non devono tornare. La costa d’Amalfi, come l’Italia tutta, esiste solo nel tempo, nel divenire della storia. È nel divenire — diceva Eraclito — che le cose si riposano. Tutela del paesaggio non può significare cristallizzazione. Deve significare, invece, cittadinanza attiva, tensione appassionata, militanza di tutti coloro i quali vogliono e possono contribuire al futuro virtuoso di questa nostra terra meravigliosa. Siamo in tanti, qui e in ogni angolo del mondo. Non ci lasciamo scoraggiare. Non ci lasciamo sopraffare.
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Fonte: Il Vescovado
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