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Cinema, altro "colpo grosso" di Alfieri: "Gli uomini d'oro" consacra il regista amalfitano

Inserito da (redazionelda), venerdì 8 novembre 2019 13:36:37

di Novella Nicodemi

Diretto dal giovane talento di origini amalfitane Vincenzo Alfieri, che ne firma la sceneggiatura (insieme ad Alessandro Aronadio, Renato Sannio e Giuseppe G. Stasi) e il montaggio, "Gli uomini d'oro" è un film sulla vita, sull'identità maschile e sul cinema.

Una rapina a un portavalori nella Torino degli anni '90 vede coinvolti un dipendente ‘terrone' e logorroico, nonché ex playboy, che si è visto portare via sotto il naso il sogno della baby pensione da passare in Costarica (Giampaolo Morelli), coadiuvato dal suo amico, anche lui meridionale e tifoso della Juve (Giuseppe Ragone); un impiegato grigio e triste, con la passione per la caccia, che si sobbarca tre lavori per portare avanti la famiglia (un Fabio De Luigi credibile anche in questo ruolo non comico di borghesuccio ligio al dovere rude e collerico); un ex pugile (Edoardo Leo, lontano dal cliché del romanaccio), imbelle e inetto, schiacciato in una duplice morsa da una figura femminile dominante e da un eccentrico couturier dalla doppia insospettabile vita (Gian Marco Tognazzi).

Da un fatto di cronaca imperniato su una rapina di stampo monicelliano alla ‘soliti ignoti', il regista costruisce una storia per niente scontata ma con tutti i crismi del classico noir cupo e plumbeo. La suddivisone del plot in capitoli nei quali la prospettiva del medesimo evento cambia ruotando attorno ai tre protagonisti sembra essere un tributo, reinterpretato in modo originale e innovativo dalla personale cifra stilistica di Alfieri, allo schema narrativo tarantiniano ("Le iene" e "The hateful eight").

Racconto realistico quello di Alfieri, ma che si apre a sviluppi sempre più imprevedibili e surreali man mano che scivola verso un finale inaspettato.

Il titolo del film, opera seconda di Alfieri dopo "I peggiori", ricalca l'appellativo col quale vennero apostrofati questi improvvisati criminali dalla stampa dell'epoca: una ‘gloriosa' rapina senza spargimento di sangue le cui potenzialità cinematografiche furono intuite subito dal giornalista Meo Ponte e i cui risvolti al limite dell'assurdo sono stati ben commentati dal libro "Il colpo degli uomini d'oro. Il furto del secolo alle Poste di Torino" di Bruno Gambarotta.

La sapiente regia, che richiama in diversi punti quella rocambolesca e straniante di Guy Ritchie, ci catapulta senza filtri nelle esistenze di questi personaggi, avvolte dalla stessa cappa nebbiosa che opprime la città e l'Italia di quel periodo. Uomini così diversi tra loro, ma accomunati dalla stessa identica frustrazione: la vita che fanno gli sta stretta e, nell'incapacità di uno stravolgimento esistenziale sostanziale, inseguono il sogno di un cambiamento repentino e facile, improvvisandosi rapinatori.

Si dice che la realtà superi la fantasia. ma la fantasia del regista Alfieri si rivela ancora più immaginifica nel raccontare con maestria i sottili passaggi che ci conducono, nella parte finale, da un colpo di scena all'altro, cambiando le carte in tavola.

Lo spettatore ha l'impressione di entrare nelle vite dei protagonisti con la stessa forza violenta con cui Luigi (Morelli) inchioda la sveglia al muro, gesto catartico e liberatorio. Siamo costretti a guardare in faccia questi uomini; le loro miserie e i loro nati più nascosti e imprevedibili. Centrale il loro rapporto tormentato con le donne, presenze comprimarie rispetto ai protagonisti ma il cui ruolo diventa determinante sia nelle scelte da loro compiute che nell'esito finale della vicenda di cronaca e del film.

La pellicola di Alfieri non è catalogabile semplicemente come un heist movie o un poliziesco seppur ricco di echi cinematografici d'autore: la trama si colora di suggestioni malinconiche nel dipingere vite a metà, vite inespresse e spezzate che si incrociano in un dinamismo statico di grande impatto emotivo. Il cinema italiano ha bisogno di film come "Gli uomini d'oro" che scuotano le coscienze, anche con momenti di puro divertimento e sottile ironia, innescando cortocircuiti cognitivi e vibrazioni permanenti dell'anima.

Fonte: Il Vescovado

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