Tu sei qui: AttualitàUn Natale diverso: guardare il volto di un Dio povero con gli occhi stupiti di un bambino
Inserito da Antonio Schiavo (redazionelda), mercoledì 23 dicembre 2020 11:10:01
di Antonio Schiavo
Ero piccolo, forse cinque o sei anni: mia zia Mariella volle portarmi con sé a Castellamare di Stabia, dove abitava. Per la prima volta mi allontanavo da Ravello senza i miei genitori, da solo pur se in casa di un familiare.
La prima sera feci molta fatica ad addormentarmi, piangevo in silenzio tentando di non farmene accorgere; mia zia però capì che qualcosa non andava e mi chiese perché fossi così triste.
"Penso a papà" le risposi "mi sento povero!". Certo nella mia mente di bambino quella parola non aveva, almeno in quel contesto, il significato letterale e più vero del termine ma, se ci pensate, povertà è oggettivamente associabile al senso della mancanza. Di un padre, in quel caso anche se per qualche giorno, o di una cosa, di un sentimento, di un bene materiale o solo spirituale.
Quest'anno si dice che siamo più poveri perché ci mancherà il Natale o, meglio, ci mancherà tutto quello che abbiamo costruito sul Natale: lo scambio dei doni, i pranzi e i cenoni luculliani e senza fine, le passeggiate per le vie dello shopping e i mercatini, le luminarie e i fuochi d'artificio.
Non sono migliore di altri e confesso apertamente che anche a me questa maledetta pandemia ha sottratto brutalmente tutto questo e, più di una volta, ho manifestato un senso di incompiutezza della festa, di qualcosa che non era come doveva essere, di una celebrazione vanificata e quasi sprecata.
Poi, anche grazie ad un meraviglioso articolo di Massimo Recalcati su Repubblica ho, anche se con molta fatica, elaborato una considerazione che vorrei trasmettere ai cari lettori de Il Vescovado, senza alcuna pretesa di essere condiviso o di fare sfoggio di un sapere teologico che non ho.
Mi son chiesto: ma, in fondo, il Natale ha un senso mistico e intimo proprio legato a doppio filo alla valenza semantica del termine "povertà": un Dio che nasce, incarnandosi, non in un albergo a cinque stelle ma in una mangiatoia (praesepium vuo dire proprio mangiatoia) proprio perché "rifiutato" da un oste.
E' povero fra i poveri. Gli unici, i primi che accorrono sono altri miserabili: pastori, gente umile che forse a stento metteva insieme pranzo e cena. Poveri in spirito erano Maria e Giuseppe (pensate una giovane modesta e un falegname).
Ecco che allora il termine "povertà" si trasforma, non sembra più legato a qualcosa che manca, che non c'è, ma ad un messaggio che, al contrario, arricchisce o almeno ti induce a riflettere sul fatto che, negli anni, l'unica cosa che sicuramente avviamo perduto era proprio i significato più autentico di questo giorno ammantandolo di valori fatui e precari che, d'un tratto, sono stati vanificati e spazzati via, a dispetto della nostra spocchia e supponenza onnisciente, da un elemento microscopico, imponderabile e sconosciuto.
Valori mistificanti che hanno fatto prevalere, a pensarci bene, cose che abbagliano ma non illuminano, cosse che riempiono ma non nutrono, che fanno prevalere l'avere sull'essere.
Nelle nostre case dove siamo ora costretti potrebbe essere l'occasione di riconoscere quello che abbiamo dimenticato, riscoprire ciò che abbiamo inopinatamente, come l'oste di Betlemme, scartato, fermarci dopo inutili corse contro il tempo.
Guardare il volto di un Dio povero con gli occhi stupiti di un bambino che lo depone teneramente su un misero letto fatto di paglia.
Fonte: Il Vescovado
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