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14 giugno 1968: ad Amalfi l’ultimo respiro di Salvatore Quasimodo. La morte in paradiso

Definì Amalfi «il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell'infanzia»

Inserito da (redazionelda), lunedì 14 giugno 2021 10:47:16

Amalfi, 14 giugno 1968. L'ultimo giorno di Salvatore Quasimodo. Il premio Nobel per la letteratura era stato invitato nell'antica Repubblica Marinara per presiedere la giuria del premio nazionale di poesia, organizzato da Giuseppe Liuccio, presidente dalla locale Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo, e dalla redazione della rivista napoletana "Uomini e Idee". Alloggiava presso l'albergo Cappuccini (oggi hotel Convento) nella stanza numero 26. Quel giorno, poco prima di mezzogiorno, fu colpito da un malore improvviso. In mattinata, verso le dieci, la commissione si riunì nel refettorio dell'albergo, per decidere gli ultimi particolari del premio insieme. «Dopo che il verbale dei lavori era già stato firmato da tutti, Quasimodo, fattosi improvvisamente cupo, si alzò dicendo che lo aveva preso un forte mal di testa» scrisse Piero Chiara sul "Corriere dell'Informazione". Insieme alla segretaria e compagna del poeta, Annamaria Angioletti, il giornalista fu testimone diretto dell'accaduto. Furono, quelli, i primi segni dell'ictus che lo avrebbe ucciso di lì a qualche ora, e il racconto di Chiara a questo punto si fa drammatico e incalzante: «Era in camera da pochi minuti, quando venne di corsa il portiere a chiamarmi. Andai al numero ventisei e trovai Quasimodo disteso in letto e con la testa come confitta al cuscino da una lama di dolore. Annamaria Angioletti, la segretaria, fece subito chiamare un medico, mentre io gli prestavo le prime e più semplici cure. Quasimodo a un certo momento disse che non vedeva più... Il portiere non riusciva a trovare un medico e io percorrevo continuamente il lungo corridoio, fino a che fu annunciato l'arrivo del dottor Luca Iovene».

«È inutile. Morirò prima... Questa è l'emorragia cerebrale» disse il poeta al giornalista. L'autodiagnosi e la consapevolezza di essere alla fine, come è raccontata da Piero Chiara, fu ripetuta più volte, con lucidità, da Quasimodo, il quale ricordava bene gli stessi sintomi di quel male, osservati nel suo amico, il pittore Renato Birolli, morto per un ictus nel 1959, lo stesso anno del Nobel per il poeta siciliano. Nel 1966 era già stato Quasimodo, invitato da Giuseppe Liuccio, ad Amalfi, che egli chiamò «il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell'infanzia», come recita la nota epigrafe da lui dettata e murata nella Porta della Marina, e risale a quell'anno anche la rara plaquette del suo "Elogio di Amalfi", stampata in tiratura limitata dalla locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo.

Ma in quell'ultimo fatale soggiorno amalfitano del giugno 1968, era giunto già stanco, provato dal viaggio, dal caldo, dalla sua iperattività, in giro per il mondo, nonostante un precedente infarto avuto a Mosca dieci anni prima. Dopo la visita il medico Iovene gli praticò un abbondante ma vano salasso, che procurò solo un sollievo momentaneo. Il racconto puntuale di Chiara ricorda lo zelo adottato dal dottore per tentare di salvare la vita al poeta, ma, in assenza di qualsiasi presidio ospedaliero in costiera, questi si vide costretto a telefonare all'Ospedale Ruggi di Salerno per chiedere consiglio e aiuto al neurologo professor Canger. Quando, dopo due ore, il neurologo arrivò, Quasimodo era entrato già in coma. «Il professore, dopo aver telefonato alla clinica "Mediterranea" di Napoli, e aver parlato col professor Castellano per concordare un intervento, ordinò il trasporto del morente a Napoli. Non si poté trovare una barella. Sotto il sole, sopra un asse da stiro, portato da cuochi e camerieri, Quasimodo fu avviato lungo le interminabili scale che scendono dall'albergo alla strada costiera.

Era stata chiesta invano un'autoambulanza: una Fiat 1500 fu tutto quanto si poté trovare per non perdere minuti preziosi. La macchina partì, preceduta da un'altra macchina, con i medici, Giuseppe Liuccio e Buttitta».

È inutile aggiungere che Quasimodo arrivò a Napoli praticamente già morto, com'era prevedibile, data la tragica assenza di strutture sanitarie locali e considerata la quantità di ore perse inutilmente dopo il primo manifestarsi del male. Ma noi ci permettiamo di aggiungere qualcosa, che è più di una illazione postuma, credendo di conoscere l'indole del poeta attraverso le sue opere: anche se si fosse strappato alla morte il corpo, con la devastazione subita dal suo cervello, le gravi, inevitabili, menomazioni della parola e dell'esistenza, avrebbero costituito un martirio insopportabile per lui «aperto al sole della vita / memore della felicità antica / che sempre ispirò la sua poesia», ricordando le parole di Alfonso Gatto, scritte nel marmo all'hotel Cappuccini.

Nell'ora della morte e nelle ultime frasi Quasimodo ebbe il sembiante di un antico stoico greco, dice Piero Chiara, con la sua bella prosa: «Senza segni di disperazione, consapevole quasi con disprezzo per la banalità con la quale gli appariva la morte, davanti al Mediterraneo che lo abbagliava dalla finestra spalancata. Nessun saluto, nessun rimpianto, da buon pagano».

Foto: archivio Sigimondo Nastri

Fonte: Il Vescovado

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