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I mille anni della chiesa di San Giovanni del Toro: a Ravello resiste il fascino della storia

Inserito da (Maria Abate), martedì 15 maggio 2018 15:51:58

di Salvatore Amato

Nel 2018, anno in cui ricorrono i duecento anni dalla soppressione della Diocesi, i centenari dell'elevazione a Basilica Minore dell'ex Cattedrale e della morte di fra Antonio Mansi, celebre figura del francescanesimo del primo Novecento, Ravello avrà la straordinaria opportunità di celebrare i mille anni di uno dei suoi monumenti più insigni: la chiesa di san Giovanni del Toro, Caput et mater aliarum ecclesiarum parochialium civitatis. Con questa espressione il vescovo Francesco Benni, agli inizi del Seicento, gli riconosceva solennemente il ruolo fondamentale svolto nella prassi sacramentale e liturgica nella Ravello altomedievale, in particolare nel lungo periodo che precedette l'istituzione della Diocesi, avvenuta nel 1086.

Ruolo che la nuova chiesa di san Giovanni potrebbe aver ereditato da un preesistente luogo di culto giovanneo, noto con la specifica de Aquola, conosciuto dal 1010, e di cui, agli inizi del 1018, deteneva una quota parte il presbitero Giovanni insieme alla titolarità di un castagneto, di una vigna e di una terra incolta, tra loro adiacenti, situati nella località Toro di Ravello.

Queste proprietà, spettanti in quota anche alla chiesa di san Pietro de Serea, il 15 maggio del 1018 erano vendute dal presbitero Giovanni a un gruppo di abitanti di Ravello, che allora era ancora un locus dictus, un villaggio o comunque una sede di aggregazione. Facevano parte di questo consorzio alcuni esponenti delle famiglie de Maurone, Rogadeo, de Urso Maurone, Mucilo, de Rosa, Mastalo, de Iusto, Mastatola, Pironti e de Eufimia, i quali, "con l'ispirazione della bontà del Signore" e per la redenzione delle loro anime, decisero di costruire una chiesa e dedicarla a san Giovanni Battista.

Il documento originale della fondazione del luogo di culto, conservato nel fondo Pergamene dei monasteri soppressi, 1° serie, n. 44, dell'Archivio di Stato di Napoli, è stato distrutto nell'incendio che il 30 settembre 1943 colpì la Villa Montesano di San Paolo Bel Sito, ove erano stati concentrati i fondi più preziosi dell'Istituto napoletano. Per buona sorte, però, l'atto era stato edito sia nei Regii Neapolitani Archivi monumenta, nel corso del XIX secolo, sia nel Codice diplomatico amalfitano del Filangieri e, fortunosamente, una sua riproduzione facsimilare è pubblicata nell'Archivio Paleografico Italiano. Le caratteristiche morfologiche della scrittura del documento hanno poi interessato gli studi paleografici in relazione alla particolare forma di alcuni legamenti tra le lettere, che tendono a formare un asso di picche. In tempi più recenti, inoltre, grazie all'Istituto di Studi Atellani, è stato ripubblicato il IV volume dei Regii Neapolitani Archivi Monumenta, con traduzione italiana a fronte dei documenti, compreso quello di fondazione della nostra chiesa, a cura di Giacinto Libertini.

Come che sia la saga di fondazione di San Giovanni del Toro, essa ben presto veniva in possesso, attraverso compravendite, permute e donazioni, di beni mobili e stabili non solo nel territorio costiero, ma anche nell'agro nocerino. A favorirne l'ascesa fu inevitabilmente la presenza degli hospitia domorum di diverse famiglie signorili nel convicinio della chiesa. Tale scelta consentì al luogo di culto di beneficiare, sin dal suo sorgere, di una notevole committenza artistica, a partire dall'arredo architettonico, cui restano emblematico esempio il pulpito e il pluteo, quest'ultimo fatto realizzare da Giovanni, figlio di Filippo Frezza, che appare come sottoscrittore di carte ravellesi negli anni venti del XIII secolo. Nello stesso secolo, i continui interventi sulla fabbrica dovettero condurre a una nuova consacrazione dell'edificio, avvenuta il 7 giugno 1276, ad opera dei vescovi di Ravello, Minori, Policastro e Acerno. Ma la manifestazione più evidente dell'autorappresentazione familiare nel complesso di san Giovanni del Toro è costituita da una progressiva attività edilizia nell'edificazione di cappelle e altari, a partire dagli ultimi secoli del medioevo. Lo testimoniano, fra l'altro, le tracce di affreschi più o meno visibili, databili a partire dal XIV secolo e insistenti in più punti dell'edificio, in particolare nella cripta, nell'attuale sagrestia e in un vano attiguo all'ingresso di sinistra. Ad essi si aggiungono i dipinti su tavola, che restituiscono, per l'età moderna, l'evoluzione di patronati e devozioni familiari, come S. Eustachio per la famiglia D'Afflitto e S. Nicola per i Frezza. Ad esse si aggiungerà anche la cappella intitolata a S. Vincenzo Ferrer. La cura parrocchiale di San Giovanni per diversi secoli, fino alla fine del XVIII, spettò a quattro rettori, i quali in proporzione dividevano le rendite, che ancora agli inizi dell'Ottocento ascendevano a 520 ducati. Ma per far fronte ai lavori di accomodamento del complesso, necessari alla fine del Settecento, nel 1775 fu soppressa la quarta porzione dal vescovo di Ravello Michele Tafuri. Analoga sorte toccò anche alla terza quota, per decisione dell'Arcivescovo di Amalfi Mariano Bianco, per cui San Giovanni, dalla metà del XIX secolo, si trovò con solo due rettori, oberati da notevoli pesi di messe, anniversari e celebrazioni solenni nelle feste dei santi Giovanni, Vincenzo, Eustachio, Nicola e Caterina. A quest'ultima santa era dedicato, inoltre, un altare nell'attuale sagrestia, «in cui ammiravasi il santo Presepe a rilievi di stucco». Presso la ‘grotta' del presepe, nel 1893, Luigi Mansi scoprì la pregevole immagine di Santa Caterina in stucco, dichiarata monumentale nel 1896.

Agli inizi dell'Ottocento, la parrocchia fu annessa a quella della ex Cattedrale, pur riservandosi i parroci il titolo di san Giovanni del Toro. Così risultava dal verbale della Visita Pastorale dell'Arcivescovo di Amalfi, Francesco Maiorsini, del 20 maggio 1874, che informava della presenza di tre altari, rispettivamente dedicati a san Giovanni Battista, sant' Eustachio e a san Vincenzo Ferreri. Inoltre, lungo la navata sinistra, esisteva ancora la cappella di san Nicola, un tempo di patronato della famiglia Frezza, poi passata ai Torre di Amalfi, che ne avevano affidato gli oneri di messe al canonico atranese Francesco Gambardella. Negli anni settanta dell'Ottocento, i due parroci di san Giovanni erano Don Luigi Mansi, laureato in Sacra Teologia alla Regia Università di Napoli e da non confondere con l'autore di Ravello sacra-monumentale, e Don Pasquale Mansi. Tuttavia, i due sacerdoti officiavano solo nella ex Cattedrale, come era prassi dal momento dell'unione parrocchiale avvenuta nel 1812. Ma a dare nuovo impulso al luogo di culto provvide, nei primi decenni del Novecento, l'Arcivescovo Ercolano Marini, che desiderò dall'inizio del suo ministero rivedere officiate le chiese di San Giovanni del Toro e di Santa Maria a Gradillo. Superate le difficoltà che si frapposero al suo proposito, decretò, il 7 ottobre 1930, il trasferimento a San Giovanni della Confraternita del SS. Nome di Gesù. Il sodalizio vi funzionò fino alla fino agli inizi degli anni Sessanta, quando ne era priore Tommaso Amato. In quegli anni cominciarono anche i lavori di restauro, al termine dei quali, il 26 aprile 1970, l'Amministratore Apostolico di Amalfi, Jolando Nuzzi, consacrava l'altare e al centro dell'abside centrale veniva posto l'antico crocifisso ligneo che si trovava sulla parte destra della cappella attigua a quella di san Pantaleone nell'ex cattedrale. A margine di quegli eventi il presule ebbe modo di constatare come restasse «quasi intatto lo splendore di questa chiesa, che a distanza di mille anni suscita la nostra ammirazione per la sua stupenda architettura e per l'inestimabile ricchezza della sua arte».

Fonte: Amalfi News

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